domenica 29 maggio 2011

.......di Angelo d'Orsi

di Angelo d'Orsi
“Gli industriali sono divisi tra loro per il profitto, sono divisi tra loro per la concorrenza economica e politica, ma di fronte alla classe operaia essi sono un blocco d’acciaio: non esiste il disfattismo nel loro seno, non esiste chi sabota l’azione generale, chi semina lo sconforto e il panico”. Mi è già capitato di ricordare, negli scorsi mesi, quelli della “battaglia di Mirafiori”, questo brano di Antonio Gramsci dedicato allo “sciopero delle lancette” (aprile 1920), negli stabilimenti Fiat. Un momento decisivo della lotta tra capitale e lavoro, in questa città, dotato, naturalmente, di un robusto significato nazionale, grazie al forte valore simbolico di quello scontro: l’obiettivo era il potere in fabbrica. Ossia, i lavoratori hanno o no il diritto di dire la loro sulle condizioni, sui tempi, sugli orari, sui ritmi in fabbrica? Spostare le lancette degli orologi dello stabilimento Fiat indietro di un’ora da parte dei membri delle Commissioni interne, significava dire: in fabbrica, per ciò che concerne l’organizzazione del lavoro, contiamo noi. E non possiamo accettare che le nostre condizioni lavorative vengano decise, e peggiorate, da altri: siamo noi maestranze a dover decidere.

Aggiungeva Gramsci, davanti all’esito di quello scontro epocale finito malamente per i proletari: “La classe operaia è stata sconfitta e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia è stata trascinata nella lotta”.

Anche oggi, davanti alle “agitazioni” del mondo del lavoro, ci rendiamo conto che è così. Anzi, è praticamente quasi sempre così: i lavoratori non fanno sciopero – che costituisce un peso e un costo innanzi tutto per loro, e per le loro famiglie – per attaccare: fanno sciopero per difendersi: per difendersi dall’attacco del padronato o del ceto di governo, i lavoratori sono costretti a organizzare azioni, inventano forme nuove o ripropongono forme vecchie, sperimentate (anche se talora forse bisognose di essere rivedute e corrette) di lotta nelle officine e negli uffici, o forme di azione pubblica che tentano di smuovere la “zona grigia”, o, per usare il linguaggio canonico, di “sensibilizzare la pubblica opinione”. Sono azioni di resistenza, di difesa, o, tutt’al più, di contrattacco.

In tal senso, la classe lavoratrice – operai, tecnici, impiegati – è, in questa fase storica, sulla difensiva; e la cosa si spiega perfettamente. Oggi, un “oggi” che dura da tempo, in un crescendo inquietante, è il padronato, è la destra, politica economica e culturale, a mostrare un’attitudine ideologica all’attacco alle posizioni acquisite sul piano istituzionale e sociale dai subalterni, intesi nel senso più lato. E, da questa destra aggressiva, che teorizza il “cambiamento”, tocca sentirsi chiamare “conservatori”: ma noi sappiamo che esiste anche un conservatorismo dei valori, del quale ci dichiariamo paladini, e un conservatorismo degli interessi (gli interessi dei potenti, beninteso), a cui ci dichiariamo ostili. È la destra che teorizza e cerca di praticare il “cambiamento”, chiamando “riforma” qualsivoglia ideologia o pratica volte a scardinare l’edificio dello Stato democratico, a corrompere l’equilibrio tra i poteri, a legalizzare l’illegalità; a cancellare lo spazio pubblico per trasformarlo, spezzettato, in spazi privati; a rendere ogni bene comune, ogni risorsa sociale ed economica, bene a disposizione di qualche potentato, in grado di acquisirlo e di rivenderne l’uso ai singoli, o, come viene esposto dalla comunicazione politica della lingua dominante, ossia del pensiero (all’apparenza) vincente, fruibile sul piano del “Mercato” – grande Moloch a cui non si smettono di immolare vittime sacrificali, salvo appoggiarsi parassitariamente allo Stato quando si è in difficoltà. Non basta: sono i cosiddetti “riformatori” a trasformare lo status del cittadino in quello del suddito; a usare i migranti come nuovi schiavi; a riportare i lavoratori a condizioni antiche, quelle nelle quali invece dei diritti riconosciuti e certificati dalla legge, sussistevano concessioni del “buon padrone” ai singoli: stabilimenti o individui.

Ecco, è questo il punto a mio avviso centrale. Si sta tentando, in tutto questo brusio di “riforme”, “innovazione”, “cambiamento”, “modernizzazione”, e quant’altro, di riportarci dall’età dei diritti, quella faticosamente, dolorosamente, raggiunta con lotte secolari, all’età dei privilegi. Una linea teorica e politica che ha sempre tentato, spesso, purtroppo, con successo, di dividere i lavoratori. I diritti unificano, e creano solidarietà; i privilegi dividono, e esasperano l’individualismo. Perciò sono da combattere, a maggior ragione: non solo per una motivazione storica, ma sulla base di una motivazione etica prima ancora che politica. Si propone, con il “Modello Marchionne”, un pactum sceleris: lavoro contro diritti, ossia cessione di diritti in cambio di lavoro. Come se si potesse davvero credere che rinunciando, in un determinato luogo di lavoro, a una quota di diritti potessero beneficiare tutti del lavoro posto sull’altro piatto della bilancia. È invece esattamente l’opposto. Ogni cessione di diritti implica un arretramento complessivo della classe. Si tratta perciò di un grande inganno che non è solo, guardando alla Fiat di Marchionne, l’esperimento di un nuovo modello di relazioni sociali, è, anche, la strada maestra che conduce dalla fabbrica allo Stato, non in senso gramsciano, ma rovesciandolo, in senso padronale. Il nesso tra attacco ai diritti sul luogo di lavoro e trasformazione del sistema politico verso quella che cautamente (troppo) si è chiamata “postdemocrazia” è fortissimo, e va evidenziato, denunciato.

Il nostro intento – di noi qui, che partecipiamo alle prime assise di Lavoro e Libertà, consci che si tratta di un evento il cui significato va ben oltre le nostre persone – è, precisamente, di riaffermare l’importanza dei diritti, il loro insostituibile ruolo storico: sui diritti, insomma, non si torna indietro, per usare un facile slogan, facile ma necessario; sui diritti non si può cedere, e dunque non si può neppure trattare. Il primo diritto è alla vita, il secondo, a quello strettamente connesso, non solo sul piano biologico, è il diritto per l’appunto al lavoro. Il terzo è il diritto alla dignità della condizione di lavoratori e lavoratrici, ma anche di coloro che il lavoro hanno concluso, arrivando a una quiescenza che troppo spesso somiglia al mero, mesto tempo di attesa della finis vitae. E non dimentichiamo il diritto di chi il lavoro non ce l’ha, o di chi ne ha di quelli senza garanzie, senza certezze, senza tutele.

Lavoro e Libertà deve, fin dallo slogan della nostra assemblea, ricordare agli immemori o ai distratti che la Repubblica italiana “è fondata sul lavoro”. Che significa lavoro per tutti, lavoro dignitoso, garantito, sicuro; che significa trattamento decoroso dei pensionati; che significa riconoscimento dei diritti collaterali a quello del lavoro: casa, trasporti, tempo libero. Che sia un tempo davvero liberato dalle vecchie e nuove schiavitù salariali. E dall’intrattenimento e dal divertimento imposti dal sistema: vogliamo evitare di finire nel ruolo del “gorilla ammaestrato” di cui ancora Gramsci parla in Americanismo e fordismo. Che significa, in realtà, azione di resistenza, sistematica e generale, compatta e solidale, culturale (nel senso ampio, antropologico) nei confronti dell’aggressione che ogni giorno arriva ai lavoratori, di ogni settore, da parte di amministratori delegati senza meriti alcuni al di là del risparmio sulle spese dei loro datori di lavoro; da parte di coloro che ormai come professione invece che gli imprenditori svolgono quella di fallimentatori, delocalizzatori, modesti contabili che affrontano le sfide poste dalla globalizzazione, e le stesse difficoltà della crisi economica internazionale, in termini di mera aritmetica: l’ultimo esempio è il piano per un settore storico per l’economia e per lo stesso famoso made in Italy (con cui si sciacquano la bocca i nostri governanti), il settore della cantieristica navale. Dopo aver distrutto la chimica, l’elettronica, e aver svenduto ai privati il settore agroalimentare, la telefonia, i trasporti ferroviari, e, ridotti in condizioni penose, quelli aerei, privatizzando profitti e gravando sulla comunità le perdite, ora smantelleremo anche la cantieristica… Incuranti, questi “imprenditori” da strapazzo (altro che “etica del capitalismo”!), dei costi sociali delle loro decisioni (che cosa può significare lo smantellamento della cantieristica a Sampiedarena o a Castellammare?!), oltre che del disastro sul piano delle tradizioni di innovazione e di esperienza artigianale che quel settore contiene in sé.

Resistere, dunque, a governanti cinici e rozzi, che non appaiono ormai neppure più membri di un comitato d’affari della borghesia, per citare Marx, ma inetti e violenti rappresentanti di un “partito della devastazione” che sta operando contro il Paese, contro quanto di buono esso nutre nel suo seno, contro le classi sociali che ne sorreggono l’economia, non soltanto producendo ricchezza, ma pagando le tasse: i lavoratori e i pensionati, in primo luogo. Con un accanimento particolare, voglio ricordarlo, contro scuola e università, tra le ultime roccaforti del pensiero libero in questo Paese. Accanimento che si è tradotto anche in tagli vergognosi al corpo docente, e ora si traduce anche in mancate iscrizioni dei ragazzi e ragazze: perché iscriversi a scuola o all’università se non ci sono speranze di lavoro? E che faranno questi giovani senza futuro?

Infine, ci avevano fatto credere che il lavoro fosse ormai diventato produzione virtuale di beni immateriali. Che la tuta blu fosse un espediente letterario. Che la classe operaia ormai non esistesse più. È stato necessario, per così dire, tragicamente necessario, il terribile incidente alla Thyssen Krupp per “scoprire” quei soggetti che proprio a Torino avevano animato alcune delle lotte più memorabili, dal biennio rosso agli scioperi del marzo ’43, fino alla mobilitazione dell’autunno caldo. Scoprire che esistevano gli operai e le operaie, e che esistevano ancora merci intese come prodotti materiali, e che per produrle occorreva fatica fisica, e, infine, che per produrre quelle merci, a disposizione della collettività, ma il cui profitto andava esclusivamente agli azionisti dell’azienda, si rischiava la vita.

Perciò oggi la classe lavoratrice non può sottrarsi allo scontro: perciò abbiamo visto scene inusitate, come i lavoratori sui tetti o abbarbicati ai cancelli. Perciò sono partite lotte anche dure, dalle occupazioni stradali agli assalti ai municipi. Anche ad errori, abbiamo assistito; ma come potremmo criticare quelle donne e quegli uomini, impegnati a difendere con la loro condizione lavorativa un interesse collettivo? E non possiamo anzi non incitare a sentirsi parte della battaglia tutti i proletari e le tante, innumerevoli figure sociali che entrano oggi nella grande categoria dei subalterni – dai sottoccupati ai cassintegrati, dai precari della ricerca ai pensionati cui si fa l’onta della social card, dagli insegnanti ingiuriati e vessati fino ai migranti, nuovi schiavi alla luce del sole…

Come per Pomigliano, poi per Mirafiori, e le altre analoghe, sia pure minori successive, si è messa in atto la strategia di un senso comune che ci invita a tenere conto delle “esigenze della produzione” (tanto più con il ricatto della globalizzazione a cui si è aggiunto nello scorso triennio quello della crisi), ossia del profitto; e delle esigenze della sopravvivenza, e della vita stessa, dei lavoratori, nessuno parla. La dignità del lavoro, e la libertà degli uomini e delle donne dalla tragedia della disoccupazione e della sottoccupazione, costituisce un bene talmente importante da essere dimenticato dagli anchormen dei media, o da tanta parte del ceto politico, non solo di governo, purtroppo.

In questa campagna propagandistica si è trascurato, deliberatamente, di dare il dovuto spazio alla fatica, la fatica fisica; si è fatto finta di dimenticare che gli operai sono “uomini (e donne) in carne ed ossa” (ancora Gramsci). E che i famosi dieci minuti di sosta che Marchionne ha rubato (quei dieci minuti “per andare al cesso”, su cui si accentra l’irrisione sciocca di qualche commentatore), sono soste vitali. Si è dimenticato che il lavoro operaio è fatica, è sudore appiccicoso, è grasso che imbratta, è schiene spezzate, è pipì trattenuta fino a sentirsi male per la vescica che si gonfia, è tagli alle mani, è muscoli irritati, è occhi che lacrimano, è dolore, e alla fine sensazione di totale estraniamento rispetto al lavoro, anche, eventualmente, al pezzo. E non solo: dobbiamo mettere in guardia anche contro un disegno che implica la volontà di controllo totale dei tempi di lavoro, di vita, di pensiero delle persone: un progetto totalitario, in sostanza, nel quale le regole vengono riscritte da una sola parte, quella forte, e imposte, con la violenza del sistema mediatico, politico (con la complicità di un sindacalismo corrotto o inetto), alla parte debole. Regole fondate semplicemente sulla elementare legge del più forte.

Anche per questa ragione storica, noi siamo stati e rimaniamo sulla barricata opposta. Accanto ai NO di Pomigliano, prima; di Mirafiori, poi. Una sconfitta dopo l’altra? Solo apparente, formale. Dietro l’apparente sconfitta di Mirafiori è emersa un’altra Torino, un’altra Italia che non si piega al turbocapitalismo, al neopopulismo autoritario, a rigurgiti razzisti o a tentazioni addirittura secessionistiche. Questa Torino è oggi qui, a dire che c’è e che non si piega. E che, di nuovo, ancora una volta, si pone accanto ai lavoratori, sia quelli in atto, sia quelli in potenza. A costruire una rete di protezione, fatta di cultura, di energia, di entusiasmo: una rete in cui due generazioni, o tre, si uniscono per smascherare le menzogne e per scuotere l’indifferenza. E contribuire a trasformare l’indignazione in progetto politico. E come mi è capitato di dire più volte negli ultimi mesi, questa Torino, e, come sta emergendo dai messaggi politici che giungono da Napoli e da Milano, questa Italia, quella che non vuole morire berlusconiana, leghista, e marchionnizzata, questa Italia è oggi maggioranza.

Trent’un anni fa, nell’autunno 1980, la marcia dei Quarantamila, segnò l’inversione di tendenza. Allora si parlava di “maggioranza silenziosa”, rappresentata anche fisicamente dai “quadri” di Mirafiori e Lingotto scesi in piazza contro il sindacato, contro la classe operaia; ebbene, io credo che oggi noi – noi qui che ci raccogliamo intorno alla FIOM, diventata la nostra linea del Piave, e in non poche altre trincee, noi che con Lavoro e Libertà vogliamo intraprendere un cammino di studio, di ricerca, di analisi, affidando ad altri, al nostro fianco, l’azione direttamente politica – siamo maggioranza. E siamo rimasti troppo a lungo silenziosi, inerti, o complici: è giunto il momento di riprendere la voce e di alzarla forte e chiara. Talora gridando, in piazza, talaltra semplicemente, come intendiamo fare qui, oggi, discutendo, affrontando problemi, individuando soluzioni. Due modi per dire No – uno dell’azione, militante, uno dello studio, riflessivo –, al progetto del “partito della devastazione”; ma anche due modi per dire sì: ma ad un altro Paese. Quello da costruire insieme.

Angelo d’Orsi